Jung Carl Gustav |
(Kesswil 1875 - Kùsnacht 1961) Psichiatra e psicologo svizzero, fondatore della psicologia analitica. Cresciuto in un ambiente fortemente permeato di religiosità (il padre era pastore protestante), si trovò ben presto ad affrontare il conflitto fra tradizione etico-religiosa e spinta individuale all'indipendenza del giudizio. È probabile che questo conflitto adolescenziale e giovanile abbia lasciato tracce nello sviluppo maturo del suo pensiero, sempre conteso tra l'affermazione dell'irriducibile esperienza personale (di cui non si può dare «scienza» alcuna) e la formulazione di una teoria psicologa e antropologica con pretese universali e «oggettive». Fu in ogni caso l'ambiente culturale della sua infanzia e, più tardi, della sua prima giovinezza a renderlo per tempo sensibile ai valori della tradizione storica e a motivarlo alla ricerca di costanti universali sottese all'esperienza individuale. L'immensa opera di Jung (più di venti volumi, a parte i numerosi inediti) non può essere in alcun modo riassunta nel diagramma di una teoria unificata e organica per quanto complessa. Jung non scrisse mai, al contrario di Freud, un'esposizione riassuntiva ed esauriente del suo «sistema» e lasciò che altri lo facessero per lui, con risultati per lo più deludenti e parzializzanti. Tentennante anche nella denominazione ufficiale della sua posizione psicologica («psicologia analitica» o «psicologia complessa»), Jung non volle mai essere identificato con una teoria formalizzata, convinto che «non avendo alcun punto di appoggio fuori di sé», la psicologia fosse una scienza del tutto particolare che, nel migliore dei casi, descrive il processo psicologico singolare e inimitabile di chi di questa scienza si dice cultore. Essa avendo come oggetto il «soggetto» di ogni indagine, è, nello stesso tempo, limitata e privilegiata da questo paradosso fondativo. Occorre pertanto distinguere il pensiero di Jung dalla cosiddetta -► psicologia analitica, tentativo di formalizzare una lunga meditazione tanto ricca quanto divergente o imprecisa • La teoria dei complessi. Laureatosi in medicina presso l'Università di Basilea, Jung entrò nel 1900 come assistente psichiatrico nell'ospedale di Burghölzli presso Zurigo dove esercitò sia come medico sia come psicologo ricercatore sotto la guida di E. Bleuler, uno degli psicopatologi più influenti dei primi decenni del secolo. Grazie a Bleuler Jung matura una certa sensibilità alla nozione di affettività quale elemento unificatore di dati esperienziali sia consci sia inconsci del soggetto umano; e proprio negli anni del loro sodalizio egli perviene al concetto di «complesso a tonalità affettiva», che avrà poi grande impiego nel vocabolario psicoanalitico (lo stesso Freud riconoscerà a Jung e a Bleuler la paternità della nozione di complesso). Su questa base teorica Jung elabora la cosiddetta «teoria dei complessi», che rimane un nodo di collegamento fondamentale di tutto il suo pensiero. La psiche umana è concepita come indeterminato e indeterminabile insieme di complessi tra i quali è da considerare lo stesso lo (complesso di rappresentazione con comuni tonalità affettive ma caratterizzato dall'appannaggio particolare della coscienza). La relazione, più o meno forte o duratura, che i complessi in generale stabiliscono con il complesso dell'Io è responsabile del loro diverso grado di «inconscietà» e, sul piano psicopatologico, dei vari stati nevrotici (reversibili) o psicotici (a reversibilità fortemente ridotta). Sulla «teoria dei complessi» si fondano sia le vaste ricerche sperimentali sulle associazioni verbali in soggetti normali o malati (Ricerche sperimentali, 1904-07) sia la Psicologia della dementia praecox (1907), che costituisce il primo cospicuo omaggio della psichiatria ufficiale europea al pensiero di Freud. In questo scritto Jung riconosce a Freud il merito di aver individuato un'importantissima motivazione del disturbo psichico (quello che Jung chiama «complesso sessuale»), ma al contempo limita il significato eziologico universale che Freud vorrebbe assegnare a tale nucleo motivazionale. Si delinea così la critica che lo Jung maturo continuerà a rivolgere alla psicoanalisi: l'errore della pars pro toto, della parte per il tutto, vale a dire l'errore di aver esteso alla vita psichica nella sua interezza ciò che è valido solo in alcuni aspetti di essa e sotto determinate condizioni. • Il sodalizio scientifico con Freud. Gli anni che vanno dal 1907 al 1912 sono caratterizzati da uno stretto rapporto di studio e di lavoro clinico con Freud, documentato da una fittissima corrispondenza (Lettere tra Freud e Jung, 1974). Jung fu considerato, con evidente abbaglio, dal fondatore della psicoanalisi il suo continuatore e il suo «delfino». Egli in realtà sembrò aderire senza riserve all'impianto teorico freudiano, peraltro in via di rapido sviluppo e trasformazione in quegli anni, e diresse con impegno lo «Jahrbuch für psychoanalitische und psycho-pathologische Forschungen», primo periodico della psicoanalisi. Nel 1909 assunse anche l'incarico di primo presidente dell'Associazione Psicoanalitica Internazionale. Senonché, al di sotto dell'apparente adesione al pensiero di Freud, Jung continuava ad alimentare sia il suo originario pluralismo eziologico relativo ai disturbi psichici di livello nevrotico o psicotico sia le sue riserve nei confronti di una radicalizzazione della teoria freudiana della libido sessuale (Saggio di esposizione della teoria psicoanalitica, 1913). Oltre a ciò le prime divergenze teoretiche e cliniche all'interno della psicoanalisi (si pensi soprattutto all'opposizione Freud-Adler) sospingevano Jung verso una concezione relativistica della psicologia dell'inconscio: ogni dottrina con fondamenti empirici adeguati viene giustificata dal «tipo» di atteggiamento psicologico del suo costruttore. Il relativismo junghiano avrà la sua prima espressione nella comunicazione al convegno psicoanalitico di Monaco del 1913 (Sulla teoria dei tipi psicologici). • La teoria della libido e il processo di individuazione. La pubblicazione, nel 1912, di Simboli e trasformazioni della libido, segna la rottura con Freud, ufficialmente consumata con le dimissioni di Jung dall'Associazione Psicoanalitica Internazionale e dalla direzione dello «Jahrbuch» nel 1913. In questo poderoso lavoro cominciano a delinearsi, sia pure ancor confusamente, alcuni motivi del pensiero maturo di Jung: la nozione di «libido», la teoria dell'«individuazione», la concezione originale del «simbolo» e il primo abbozzo dell'ipotesi degli «archetipi». Il concetto di libido che Jung propone può essere assimilato a quello di energia psichica in generale, capace di assumere ogni forma possibile (ivi compresa, naturalmente, quella della libido specifica di Freud) sia a livello di istinto sia a livello di realizzazione culturale. La libido junghiana (nella cui concezione sono evidenti influssi schopenhaueriani e bergsoniani) può considerarsi il motore di ogni manifestazione naturale e culturale dell'uomo, e le sue «trasformazioni» sono dovute alla presenza, nella psiche umana, di un particolare apparato di conversione da una forma all'altra, la funzione simbolica. Il simbolo junghiano, d'altra parte, lungi dal risolversi (come in Freud) in mero «segno» difensivo che «sta al posto di» una manifestazione inaccettabile della pulsione istintuale, ha la funzione di unire in una sintesi di carattere tensionale gli opposti in cui inevitabilmente si dirimono e all'occasione si dilacerano sia il pensiero razionale sia la volontà del soggetto umano. Nel 1916 Jung conierà, per tale apparato funzionale, l'espressione di «funzione trascendente», proprio perché capace di «andare al di là» di qualsiasi opposizione, congiungendo gli opposti in una nuova sintesi ricca di tensione creatrice. Operante sul piano della cultura, la funzione simbolica lo è ancor più sul piano dell'individuo; essa è infatti responsabile di un processo di individuazione, vale a dire del perseguimento di un'autonomia individuale, ostacolata o addirittura impedita dagli stereotipi culturali in cui il soggetto umano è originariamente immerso e con cui è in parte identificato. In questo senso l'individuazione è soprattutto un processo di «differenziazione» dal collettivo; essa non va tuttavia intesa come individualismo. Assieme alla differenziazione, infatti, l'individuazione implica un processo di «integrazione» dei valori universali custoditi dalla cultura, con l'implicito compito di trovare una modalità unica e inconfondibile per viverli e attuarli personalmente. L'individuazione viene così, in Jung, a sostituirsi alle motivazioni parziali del divenire umano proposte dalla psicoanalisi (Eros - Thanatos) o dalla psicologia individuale di A. Adler (volontà di autoaffermazione), non già perché essa disconosca quelle motivazioni istintuali ma perché le assume, assieme a molte altre, in un processo di sintesi finalizzato al costituirsi di una soggettività responsabile e capace di relazioni interpersonali creatrici. Alle trasformazioni della libido e ai simboli che ne sono gli organi funzionali Jung ipotizza che sia sottesa una pluralità indeterminata di «immagini primordiali» (simili ai «fantasmi originari» di Freud) atemporali, collettive e immutabili, da lui dette archetipi. La primitiva concezione degli archetipi fu in seguito trasformata da Jung in quella, peraltro assai ambigua, di «disposizione alle immagini» e, più tardi ancora, assimilata alla nozione kantiana di «forma a priori», responsabile però non di concetti ma di immagini universali; in ultimo fu assimilata al concetto di struttura etologica ereditaria propria della moderna biologia. La dottrina degli archetipi, tuttavia, rimase sempre in Jung allo stadio di ipotesi euristica da verificare, e gran parte della sua «psicologia» può essere accettata prescindendo da essa. Ovviamente connessa all'ipotesi degli archetipi è l'ipotesi della presenza nella psiche umana di un «inconscio collettivo». • Il relativismo tipologico e la nozione di psicologia come prospettiva possibile. Contemporaneamente allo sviluppo di tali abbozzi teoretici, Jung approfondisce quegli interessi epistemologici che forse meglio caratterizzano il suo pensiero e che trovano la loro prima formulazione estesa in Tipi psicologici (1921). Il gioco combinatorio di due atteggiamenti fondamentali (estroversione e introversione) e di due coppie bipolari di funzioni razionali (pensiero e sentimento) e irrazionali (intuizione e sensazione) portano alla costituzione di «tipi» psicologici, in base ai quali è possibile distinguere e classificare i diversi comportamenti umani e i vari modi di orientamento nella realtà. Ogni costrutto psicologico è determinato dal tipo dell'autore del costrutto stesso ed entro i limiti di tale tipo va giudicato e utilizzato. Ma poiché ogni tipologia è, a sua volta, determinata dalla particolare prospettiva del suo costruttore, si giunge a un relativismo psicologico ancora più esteso di quello formulabile attraverso una delimitata tipologia; ogni psicologia è dunque vera e parziale nello stesso tempo, essendo l'espressione del particolare «punto di vista» connaturato alla psiche di chi la elabora. Questa via non conduce allo scetticismo ma, al contrario, al dialogo collaborativo fra le varie prospettive psicologiche. • Strutture psicologiche. Nonostante l'atteggiamento relativistico riguardo alla scienza psicologica, Jung tentò di formulare «strutture» possibili della realtà psichica (a questi tentativi è dedicata gran parte degli scritti della maturità: L'Io e l'inconscio, 1928; Energetica psichica, 1928; Psicologia dell'inconscio, 1943; Aion, 1951; Gli archetipi dell'inconscio collettivo, 1954). La stessa prima «topica» freudiana (conscio, preconscio, inconscio) è da Jung modificata, in via prudentemente ipotetica, in una «topografia» della psiche che, accanto all'inconscio personale (prodotto della rimozione secondaria e di quella primaria descritte da Freud), contempla un inconscio collettivo precedente a ogni esperienza individuale, matrice «formale» di ogni esperienza e depositario degli archetipi. Un'altra struttura possibile è costituita dalle coppie di opposti bipolari (aggiunte alle coppie identificate in Tipi psicologici) individuabili nella psiche intesa come attività funzionale: Io-Ombra, Persona-Anima, Io-Sé ecc. Ma ciò che realmente interessa a Jung non è la definizione di una struttura possibile della psiche quanto mostrare come la vita psichica si svolga nell'inesauribile gioco di opposti e come questi vengano sintetizzati dalla funzione simbolica che li «tiene assieme» (simbolo da syn-bàllein, «mettere insieme»). Particolare interesse acquista in questo contesto il concetto di Sé a cui Jung giunge attraverso un gioco complesso e interminabile di antinomie: centro e totalità della psiche, struttura a priori e risultato di un processo evolutivo personale, necessità e possibilità ecc. L'interesse per la dinamica delle strutture bipolari della psiche sembra unificare tutta la frammentaria e spesso divergente ricerca di Jung che si conclude con l'opera (scritta a 80 anni) significativamente intitolata Mysterium coniunctionis (1956). L'interesse di Jung per le esperienze religiose (Psicologia e religione, 1938-40; Risposta a Giobbe, 1952 ecc.) si spiega, all'interno del suo pensiero, non solo come studio di una manifestazione culturale e autonoma della polimorfa libido, ma anche come utilizzazione dell'immaginario religioso di tutti i tempi ai fini di una comprensione più vasta e dinamica della vita psichica. La religione (come peraltro la filosofia) è per Jung la testimonianza più appariscente e completa del continuo sforzo umano di afferrare in modo distico e intuitivo la psiche. Da questo punto di vista l'immaginazione religiosa di tutte le epoche e di tutte le culture può essere proficuamente studiata dallo psicologo come fonte di concezioni non riduttivistiche della psiche, del tutto opposte a quelle che una psicologia intesa alla stregua di una scienza della natura tende invece a fornire. Sotto l'influsso di H. Bergson - che distingueva una religione «statica», con funzione di mera, anche se indispensabile, conservazione della specie umana, e una religione «dinamica», che prolunga nelle figure dei mistici lo slancio creativo dell'azione divina - Jung vede nelle manifestazioni religiose l'aspetto paradigmatico del processo d'individuazione, quando esse non assumono la forma cristallizzata dell'istituzione religiosa. Al di là dell'inganno storiografico che ha voluto confrontarlo e talvolta contrapporlo a Freud, Jung avrebbe aspirato in realtà sia a relativizzare l'impianto teoretico freudiano, sia a «inglobarlo» in una visione più vasta e completa della vita psichica, mai in ogni caso a negarlo. Nei confronti di Freud egli è semmai originale portatore della consapevolezza, per solito ignorata dalla psicoanalisi, di un'antropologia sottesa a ogni psicologia, e pertanto del bisogno di esplicitare tale antropologia al fine di non barattare la psicologia stessa per scienza universale e «oggettiva». In questo senso Jung grazie a quegli elementi che caratterizzano in modo così problematico e apparentemente frammentario la propria concezione della psiche - presenza delle immagini archetipiche, insopprimibilità dell'inconscio!che non è solo luogo di rimozione, processo 1 d'individuazione e impossibilità da parte della psicologia a fondarsi come scienza oggettiva - sembra aver anticipato molti dei temi che hanno contrassegnato lo sviluppc del pensiero psicoanalitico post-freudiano, da M. Klein a W. Bion, da D.W. Winnicott a H. Kohut. Psicologia analitica (ingl. analytical psychology; ted. analytische Psychologie; fr. psychologie analytique) Denominazione della psicologia del profondo elaborata da C.G. -► Jung che si staccò da una precedente adesione al pensiero psicoanalitico di Freud nel 1912 con l'opera Simboli della trasformazione, nella quale Jung prospetta una lettura dell'energia psichica o -► libido non più limitata alle sole manifestazioni pulsionali, come aveva ritenuto Freud, ma estesa anche alle espressioni culturali con finalità creative. Il simbolo, che Freud concepiva come semplice segno manifesto di un contenuto latente (-► simbolo, § 5, a), viene inteso da Jung come istanza operativa che promuove lo sviluppo e la trasformazione dell'uomo (-► simbolo, § 6) in vista di quel processo di -► individuazione che nel pensiero junghiano sostituisce il concetto di -► guarigione. 1. Il simbolo e il processo di trasformazione. Operando una netta distinzione tra il segno, che rinvia a una cosa nota (campanile = fallo; caverna = contenitore materno), e il simbolo, che rimanda a qualcosa di fondamentalmente sconosciuto e per il quale non c'è un'espressione razionale adeguata, Jung scorge, nella produzione simbolica individuale e collettiva, delle eccedenze di senso rispetto all'insieme dei significati codificati che promuovono quelle trasformazioni individuali e collettive in cui si esprimono a livello individuale, il senso di ogni biografia e, a livello collettivo, quello della storia. In questo modo Jung amplia il concetto di psiche, lo emancipa dallo sfondo naturalistico in cui Freud l'aveva contenuto identificando la psiche con la pulsionalità dell'uomo in quanto organismo biologico, e introduce in questo concetto la nozione di storia che le indagini psicologiche precedenti avevano lasciato fuori dal loro ambito perché la metodologia delle scienze esatte, a cui tende anche la psicologia, non ne consente il controllo e la verifica in termini di esattezza: «Là dove accade che il simbolo offra un gradiente maggiore che non la natura è possibile tradurre la libido in altre forme. La storia della civiltà ha dimostrato a sufficienza che l'uomo possiede una relativa eccedenza di energia suscettibile di essere impiegata in modo diverso dal decorso puramente naturale. Il fatto che il simbolo renda possibile questa deviazione dimostra che non tutta la libido si è fissata in maniera conforme alle leggi di natura, e che ne è rimasto un certo quantum d'energia che potremmo definire eccedenza libidica» (1928b, p. 56-57; -► simbolo, § 6). 2. Metodo causale e metodo finalistico. Questa concezione del simbolo, che oltre a operare «la trasformazione dell'energia dalla forma biologica alla forma culturale» (1928b, p. 70) esprime un'eccedenza di senso rispetto ai significati individualmente e collettivamente codificati, chiede un mutamento della metodologia interpretativa, e precisamente un passaggio dal metodo causale a quello finalistico in vista non della spiegazione di un determinato disagio, ma del significato e del senso che quel disagio oscuramente indica. Aggiungere allo sguardo esplicativo, a cui si era limitata la psicoanalisi di Freud, uno sguardo prospettico significa leggere i sintomi delle malattie non solo come segni di destrutturazioni da ristrutturare, ma come simboli di -► trasformazioni da effettuare: «La causa - scrive Jung - rende impossibile ogni sviluppo. Come esatto contrario di ogni evoluzione prospettica, la reductio ad causam blocca la libido ai dati di fatto elementari. Dal punto di vista del razionalismo questo è senz'altro un bene, ma dal punto di vista della psiche è la non vita, è la noia inguaribile. Con ciò non si intende naturalmente negare che per molti uomini la fissazione della libido ai fatti fondamentali è assolutamente necessaria. Ma quando questa esigenza è soddisfatta, la psiche non può ancorarsi in eterno a questo punto, deve continuare a evolversi e perciò le cause si trasformano in lei in mezzi per raggiungere un fine, in espressioni simboliche di un cammino da percorrere» (1928b,p. 32-33). Da questo punto di vista prende avvio una nuova interpretazione dei sintomi, delle fantasie e dei sogni. Così, ad esempio, scrive Jung: «La fantasia può essere intesa o in senso causale o in senso finalistico. A una spiegazione causale essa appare come un sintomo di uno stato fisiologico o personale che è il risultato di avvenimenti precedenti. Alla spiegazione finalistica invece la fantasia appare come un simbolo che tenta, con l'ausilio di materiali già esistenti, di caratterizzare e di individuare un determinato obiettivo o piuttosto una determinata linea di sviluppo» (1921, p. 443). Quello che si è detto per la fantasia vale per l'universo psichico: «Quando si ha a che fare con cose psichiche, il chiedersi "perché si verifica la tal cosa?" non è necessariamente più produttivo che il domandarsi "a che scopo succede?"» (1945-1948, p. 303). In gioco è qui il passaggio dall'ordine della spiegazione (Erklàrung). presieduta dalle categorie della ragione, all'ordine del senso (Sinn) che dette categorie trascende, essendo l'universo psichico più ampio dell'universo razionale (-► costruttivo, metodo). 3. L'inconscio e le sue figure. Per Jung l'inconscio precede la coscienza come sua radice e non la segue come conseguenza della rimozione; il suo contenuto non è solo il resto del passato, ma esprime anche il progetto d'esistenza e quindi il possibile futuro. Al pari di Freud, Jung non nasconde che l'inconscio è solo un'ipotesi: «Definisco ipotetici processi inconsci, perché l'inconscio, per de finizione, non è accessibile all'osservazione diretta, ma può essere soltanto "inferito"» (1946, p. 182). Ma, prosegue Jung, «sa forse qualcuno un'espressione migliore per una cosa che, in senso moderno, non è stata ancora compresa?» (1942-1948, p. 184). Giustificato l'uso del termine, Jung ne delinea gli approcci metaforici o figure con cui ci è dato rappresentarlo. Essi sono l'-► anima (§ 3) che nella sua accezione generica si riferisce alle caratteristiche interiori dell'uomo non riscontrabili nel suo aspetto esteriore che Jung chiama «persona», mentre in quella specifica si riferisce alla femminilità inconscia del maschio opposta alla sua virilità conscia. L'anima appare personificata nei sogni sotto forma mitica e in questo caso rivela la sua struttura archetipica di base (-► archetipo, § 1 ), oppure come madre, come moglie, come amante, come figlia a seconda della figura femminile da cui è presa o su cui, nelle varie fasi del processo psichico, si proietta. Altre figure sono l'-► animus che esprime l'elemento maschile inconscio nella donna, che unisce la donna al mondo dello spirito, mentre, se è invasivo, è ciò che la rende ostinata, aggressiva, testarda, dominatrice; e 1'-► ombra che Jung definisce «la parte negativa della personalità, la somma cioè delle qualità svantaggiose che sono tenute possibilmente nascoste e anche la somma delle funzioni difettosamente sviluppate e dei contenuti dell'inconscio personale» (1917-1943, p. 67). A queste figure resta da aggiungere la -► persona (§ 2), termine che Jung impiega nel significato latino di «maschera» per descrivere il comportamento che soddisfa le richieste della vita sociale. Questo atteggiamento esteriore è una delle maschere che l'Io può assumere senza identificarsi per non perdere se stesso. Jung ha riscontrato e descritto numerosi esempi di complementarità tra «persona» e «anima» la cui polarità è di segno opposto. Per Jung l'inconscio non contiene solo tracce di esperienze vissute dimenticate o rimosse, ma anche uno strato più profondo dove è depositato il patrimonio psicologico dell'umanità. A questo strato Jung ha dato il nome di inconscio collettivo, che si distingue dall'inconscio personale perché, scrive Jung, «mentre l'inconscio personale è formato essenzialmente da contenuti che sono stati un tempo consci, ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti dell'inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all'ereditarietà. L'inconscio personale consiste soprattutto in "complessi"; il contenuto dell'inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente da "archetipi". Il concetto di archetipo, che è un indispensabile correlato dell'idea di inconscio collettivo, indica l'esistenza nella psiche di forme determinate che sembrano essere presenti sempre e dovunque. La ricerca mitologica li chiama "motivi"; nella psicologia dei primitivi essi corrispondono al concetto di représentations collectives di Lévy-Bruhl; nel campo della religione comparata sono state definite da Hubert e Mauss "categorie dell'immaginazione"» (1936a, p. 43) (-► antropologia, § 2). Con l'introduzione dei modelli archetipici (-» archetipo, § 1) Jung mostra di preferire, per la descrizione della psiche, il modello immaginale rispetto al modello freudiano di tipo concettuale. Questo non autorizza a considerare gli archetipi alla stregua di immagini fisse e condizionanti il successivo sviluppo dell'uomo, perché gli archetipi non sono «contenuti», ma «forme a priori» di apprendimento, disposizioni a fare esperienza in un modo piuttosto che in un altro: «Mi oppongo - scrive Jung - all'equivoco secondo cui gli archetipi sarebbero contenutisticamente determinati, sarebbero cioè una sorta di "rappresentazioni" inconsce. Devo perciò ancora una volta sottolineare che essi non sono determinati dal punto di vista del contenuto, bensì soltanto in ciò che concerne la forma, e anche questo in misura assai limitata» (1936a, p. 81). 4. L'asse io-sé e il processo di individuazione. Col termine «Sé» Jung intende il sommo potenziale dell'individuo e l'unità complessiva della personalità. Come principio unificante della psiche «il Sé non è soltanto il centro - scrive Jung - ma anche l'intero perimetro che abbraccia coscienza e inconscio insieme; è il centro di questa totalità, così come l'Io è il centro della mente cosciente» (1944, p. 444). Del Sé Jung parla in due accezioni: come momento iniziale della vita psichica e come sua realizzazione e meta. Benché Jung non manchi di sottolineare che si tratta di una forma di approccio alla totalità psichica e non di una formulazione filosofica o teologica, la somiglianza tra la sua ipotesi e le metafore religiose offre una via d'accesso a questa figura e alla dinamica che, a partire da questa figura, si articola come processo di -* individuazione che Jung così definisce: «L'individuazione è un compito eroico o tragico, in ogni caso difficilissimo, perché implica un patire, una passione dell'Io, cioè dell'uomo empirico, comune, quale è stato finora, a cui accade di essere accolto in una più vasta sfera, e di spogliarsi di quell'ostinata autonomia che si crede libera. Egli patisce, per così dire, la violenza del Sé» (1942-1948, p. 156). Come antecedente dell'Io, e quindi del dischiudersi della coscienza razionale (-► Io, § 3), il Sé è l'espressione indifferenziata di tutte le possibilità umane mitologicamente espressa dalla divinità da cui un giorno l'uomo s'è emancipato inaugurando, con la ragione, identità e differenze che gli hanno consentito di uscire dalla notte dell'indifferenziato in cui abita la follia. Come figura ulteriore rispetto all'ambito circoscritto della coscienza razionale, il Sé rappresenta il riferimento per una nuova ricerca di senso attraverso il recupero di motivi esistenziali che a suo tempo sono stati rimossi per un'adeguata costruzione dell'Io, per cui se il Sé che antecede la nascita della coscienza mostra il volto pericoloso della non riuscita emancipazione dalla follia, il Sé come ampliamento della coscienza rappresenta il luogo da cui si attiva la creatività e, più ampiamente, possibili futuri. Questa seconda figura del Sé, a livello terapeutico, va attivata nella seconda metà della vita quando l'Io è abbastanza forte per reggere il confronto con il Sé, e sufficientemente desideroso di nuovi spunti esistenziali per rinnovare la propria vita. Questo processo, che Jung chiama di individuazione, non avviene in vista di una -► guarigione, ma in vista del raggiungimento della propria -► autenticità, di ciò che ciascuno «in fondo» propriamente è. 5. Tipologia ed ermeneutica. Il concetto di individuazione non concede di parlare dell'uomo in termini generali illustrando i meccanismi psicologici di una presunta «natura umana» perché, per Jung, gli uomini sono fondamentalmente «individui» e come tali dissimili fra loro nel modo di pensare, di intuire, di sentire e di esperire sé e il mondo. Nasce da qui l'esigenza di una ~* tipologia (§ 2) dove, dopo la grande distinzione tra introversione ed -► estroversione, compaiono i tipi psicologici di pensiero, sentimento, intuizione e sensazione, funzioni, queste, che da individuo a individuo sono alcune differenziate e a disposizione dell'Io, e altre indifferenziate e come tali inconsce (-► funzione, § 2, b). A Jung non interessa tanto la classificazione, che può essere anche mutata, ma la sua utilità in ordine al processo di individuazione che richiede il riconoscimento e l'accettazione delle funzioni inferiori della personalità rimaste indifferenziate e arcaiche, per una loro integrazione nella dinamica dell'individuo psicologicamente maturo. La tipologia, inoltre, pone problemi ermeneutici nel senso che la qualità tipologica dello psicologo condiziona le sue interpretazioni possibili, e, non essendoci un punto di vista superiore che consenta una visione oggettiva della psiche, questa sarà rintracciabile per vie ed erramenti dovuti alla «qualità tipologica» dell'interprete nell'intendere psicologico (-► equazione personale). Ponendosi al di fuori di ogni confronto con le altre scienze dell'uomo perché il suo oggetto di indagine coincide con lo stesso soggetto indagante, e ogni tentativo di porsi al di fuori porta inevitabilmente le stimmate della soggettività, la psicologia, a parere di Jung, «deve abolirsi come scienza e, proprio abolendosi, raggiunge il suo scopo scientifico» (1947-1954, p. 240). Questa considerazione apre problemi ermeneutici ed epistemologici che Jung ha indicato, ma non ha svolto per il suo continuo oscillare tra il percorso di una psicologia sovrastorica e presuntivamente «oggettiva», e il percorso più avvertito che, non ignorando il «soggettivismo» implicito in ogni ricerca sulla psiche, evita il relativismo, per accettare il paradosso inevitabile del «circolo ermeneutico» (-► ermeneutica). 6. Sviluppi della psicologia analitica. Dopo Jung la psicologia analitica ha percorso due itinerari che si scostano dallo junghismo classico: l'itinerario archetipico di E. Neumann e di J. Hillman, e quello ermeneutico-epistemologico di M. Trevi. a) L'itinerario archetipico. Per Neumann «nello sviluppo ontogenetico la coscienza egoica dell'individuo deve percorrere i medesimi stadi archetipici che hanno determinato lo sviluppo della coscienza all'interno dell'umanità. Nella propria vita il singolo ricalca le orme che l'umanità ha calcato prima di lui. [...] Quell'evoluzione ha lasciato le sue tracce sedimentate nella serie delle immagini arche tipiche della mitologia» (1949, p. 13-14). Dal canto suo Hillman, dopo aver segnalato che «la tradizione filosofica occidentale ha mantenuto un pregiudizio contro le immagini preferendo loro le astrazioni del pensiero» (1972a, p. 57), chiede un rovesciamento della tendenza anche in considerazione che «l'istinto agisce e nello stesso tempo forma un'immagine della sua azione» (1972a, p. 62). E poiché «il linguaggio onirico, il linguaggio delirante e allucinatorio, il linguaggio popolare parlano in termini di persone, lo stesso deve fare una psicologia che voglia parlare della psiche in quello che è il suo vero discorso» (1972a, p. 57; -► archetipo, § 3). b) L'itinerario ermeneutico-epistemologico. Su questo versante Trevi ha inaugurato la distinzione tra psicologia e considerazione psicologica per risolvere il problema dell'oggettività e della soggettività che non consente alla psicologia di porsi come scienza: «Il modulo costruttivo della "psicologia" - scrive Trevi - porta inevitabilmente ad assolutizzare un'ipotesi e a organizzare appunto una descrizione oggettiva della psiche, un discorso conclusivo "sulla" psiche, una "teoria" e infine, come si vedrà, un tessuto dogmatico. Il modulo costruttivo della "considerazione psicologica" porta invece verso l'enucleazione di procedimenti epistemologici sempre più scaltri e sottili, e a quella cautela metodologica che potrebbe andare sotto il nome di arte ermeneutica o esercizio inesauribile dell'interpretazione. Il primo modulo costruttivo conduce all'esclusione delle altre "psicologie" oppure, inavvertitamente, a un sincretismo acritico. Il secondo modulo costruttivo conduce al dialogo dei punti prospettici e perciò stesso delle "psicologie", tutte "vere" purché coerenti alle loro premesse, alle loro scelte di "imputazione causale", e tutte relative, storicamente, psicologicamente e esistenzialmente condizionate. Il modulo costruttivo della "psicologia" elabora un modello e lo universalizza, il modulo costruttivo della "considerazione psicologica" tende all'elaborazione della dialogicità aperta dei modelli possibili. Infine l'uno tende al logos psicologico, l'altro al dialogo» (1987, p. 93). |